Nelle scorse settimane, abbiamo proposto su LinkedIn un sondaggio per “misurare” le conoscenze di moda sostenibile degli iscritti al nostro gruppo Sustainable Business Makers. Persone non proprio digiune del tema, ma anzi sensibili e interessate a contribuire come consumatori alla transizione del fashion & luxury alla sostenibilità.
Abbiamo battezzato il sondaggio #fashionisticonsapevoli, come il libro di Francesca Rulli edito da Flaccovio Editore, perché la prospettiva è proprio quella dei consumatori. Quali risposte sono arrivate? E che tipo di considerazioni suggeriscono i risultati valutati nel loro insieme?
Partiamo dalla cornice, per stabilire anzitutto quanto aderente sia alla verità l’idea che il pubblico ha di prodotto sostenibile. Nessuna delle opzioni proposte era totalmente errata, ma conforta che la risposta più pertinente e completa abbia superato di gran lunga la maggioranza assoluta (67%).
I partecipanti al sondaggio, che acquistano per lo più in negozi multibrand “tradizionali”, si dividono su ciò che meglio definisce una produzione sostenibile. Prevale la componente ambientale della sostenibilità: per tanti, le iniziative più utili a traghettare l’industria della moda verso la sostenibilità sono quelle che interessano i consumi di risorse, le emissioni e l’uso della chimica. Vero è anche che l’indagine ha volutamente omesso la possibilità di rispondere “tutte le precedenti” e che l’opzione “tracciabilità dei processi” raccoglie un interessantissimo 29% di gradimento.
Come posso verificare gli attributi di sostenibilità di un prodotto? Ecco, qui il risultato ci piace tanto, perché denota una fame positiva di informazioni e la voglia di ricercarle ovunque si rendano disponibili. Non sorprende che le certificazioni di parte terza raccolgano buoni consensi (29%), mentre invita a riflettere lo zero tondo raccolto sia dai dati in etichetta che dalle comunicazioni dei brand. Lacunose? Poco credibili? Le app che misurano la credibilità dei brand potrebbero essere di aiuto, ma sono poco note e pochissimo utilizzate.
Una delle domande del sondaggio ci aiuta a stabilire che su green e social washing, se non altro, i consumatori sono informati. I claim di sostenibilità ingannevoli sanzionati come tali dalle autorità sono sempre più numerosi, i media ne danno evidenza e la consapevolezza cresce, così come la propensione a premiare la qualità del capo genericamente intesa piuttosto che i valori dichiarati di sostenibilità: se compro un vestito o un accessorio, insomma, mi affido con più fiducia alla sua qualità percepita – e in seconda battuta al prezzo, che ne è in fondo una la spia – che ad altri fattori non dimostrati.
Del tutto coerente è l’orientamento sui dati che condizionano di più l’acquisto fra quelli riportati in etichetta. La composizione tessile è infatti associata alla qualità del capo, alla sua sicurezza e alla sua durabilità nel tempo. Le informazioni di manutenzione sembrano invece interessare pochino, almeno nella fase in cui si decide se passare o meno alla cassa.
Molto buono il dato aggregato sulla disponibilità a pagare la qualità suddetta. I consumatori si dicono pronti a spendere qualcosa in più per capi con contenuti (autentici) di sostenibilità, perché ogni contributo conta e il comportamento virtuoso di tanti può spingere anche i brand a scelte di produzione etiche ed eque.
Chiudiamo con una nota positiva grazie al quesito sul destino degli abiti e degli accessori di cui intendiamo disfarci, quale sia il motivo. Molti li regalano, molti altri scelgono la raccolta dedicata, alcuni li rivendono… nessuno li getta nei cassonetti dell’indifferenziata. Il campione – lo abbiamo premesso – rappresenta un pubblico interessato al tema, ma lo 0%, in questo caso, ci scalda comunque il cuore.