Cos’è il reshoring? A partire dai primi anni Novanta, l’industria della moda ha puntato in larga parte sulla delocalizzazione della produzione, spinta principalmente da questioni di marginalità e costo del lavoro. Da qualche anno, complice anche l’aumento dei prezzi di risorse e materie prime, stiamo assistendo al fenomeno contrario. Il reshoring, appunto.
Con reshoring – o nearshoring – s’intende il rientro delle produzioni nei Paesi d’origine o comunque in geografie a corto raggio. Che non è un tema nuovissimo né soltanto italiano, ma le difficoltà di approvvigionamento che stiamo vivendo da diversi mesi a questa parte l’hanno reso quanto mai attuale.
Qualche numero
Diversi studi hanno analizzato il fenomeno. A livello europeo, una delle ricerche più valide è stata realizzata fra il 2015 e il 2018 dall’European Reshoring Monitor, organismo nato dalla collaborazione tra Eurofound e un gruppo di ricercatori di diverse università italiane per monitorare i casi di reshoring nell’Unione Europea e nell’area EFTA (Associazione Europea di Libero Scambio). Nel quadro del progetto si sono registrati 253 casi di reshoring, il 60% dei quali fra il 2016 e il 2017. Il maggior numero di rimpatri della produzione ha interessato, nell’ordine, Regno Unito, Italia e Francia. Se prendiamo invece in considerazione i Paesi dove le produzioni erano state delocalizzate, il primato assoluto spetta alla Cina con il 30% dei casi, seguita a distanza da India e Polonia con il 6%.
Una scelta bella e buona
Il comparto tessile e moda di casa nostra sembra andare alla grande: nel primo trimestre del 2022, la tessitura italiana è cresciuta del 34%, con un +46% nell’export e questo a dispetto della carenza di manodopera specializzata, dei costi delle materie prime e di energia e gas, soprattutto.
A spingere le realtà del tessile e moda verso soluzioni a chilometro zero non sarebbe tanto un problema di costi – o almeno, non è questa la ragione all’origine del trend – quando l’esigenza di garantire servizi all’altezza della propria storia e un’opportunità per consolidare la propria reputazione anche in campo ambientale.
Per molto tempo, gli elevati costi del lavoro sono serviti a giustificare la produzione offshore. Oggi, invece, la volatilità delle filiere, le complicazioni e i costi di spedizione, i dazi, le incertezze generate dall’instabilità sociopolitica e la proliferazione stessa delle tecnologie di automazione, che portano a una riduzione sensibile del numero di lavoratori necessari allo svolgimento di tanti processi, rendono il reshoring un’opzione redditizia, pratica e, in ultima analisi, più sicura. Una scelta sostenibile perché aiuta anche a contenere gli eccessi di produzione: i bacini di fornitura lontani dai mercati di riferimento, infatti, implicano processi macchinosi di previsione della domanda e rischi conseguentemente più alti di overproduction.
La riscossa della filiera corta
Nel nostro Paese, il trend sembra riscuotere più consensi che altrove, legato com’è anche alla volontà delle aziende di investire sui valori dell’italianità e sui distretti d’eccellenza. Con ritorni proficui in termini di efficienza, perché la filiera corta – e non mancano le testimonianze a supporto – garantirebbe qualità e tempistiche migliori senza controindicazioni importanti per la marginalità.
“Quando si calcola il costo della catena di approvvigionamento di un’azienda, la produzione non è l’unica componente dell’equazione”, spiega Francesca Rulli. “Voci come il trasporto, la logistica, lo stoccaggio… hanno un peso altrettanto rilevante e non è solo una questione di soldi. La delocalizzazione pone infatti altri problemi come la minore qualità della produzione, il furto di proprietà intellettuale in Paesi dove i controlli sul rispetto delle leggi sono più labili, i bassi standard di salute e sicurezza nelle fabbriche e così via”.
La delocalizzazione, in questo senso, rientra in un approccio del fare moda poco etico. E non occorre citare a supporto la tragedia simbolo del Rana Plaza con i suoi 1100 morti o l’incendio dell’anno scorso a Karachi, che di vittime ne ha fatte 300. Le denunce in eventi globali come il Copenhagen Fashion Summit e le innumerevoli interviste ai lavoratori del settore abbigliamento rappresentano un quadro che scuote l’opinione pubblica e spinge sempre più brand a rivedere le proprie scelte a favore della filiera corta.
“Se un brand sposa la sostenibilità e decide coerentemente di monitorare la sua produzione, deve optare per fornitori in grado di seguirlo su certe scelte di natura etica e ambientale”, sottolinea Rulli. “I principi di sostenibilità a cui pure risponde la tendenza ad avvicinare la produzione ai mercati di vendita – produco in Europa ciò che vendo in Europa, in Asia ciò che vendo in Asia, ecc. – sono incontestabili, ma a monte deve esserci sempre una strategia che premi i fornitori più virtuosi e credibili. Ecco, in questo senso l’Italia ha un’occasione d’oro, perché la nostra è una filiera produttiva più evoluta sia in termini di qualità che di sostenibilità. Mettere a profitto questo vantaggio sui mercati globali è opportunità enorme che sarebbe masochista non cogliere”.