Di ricerche che indagano i comportamenti di acquisto dei consumatori ce ne sono tante. E di solito, quello che emerge è la maggiore sensibilità della Gen Z verso tematiche sostenibili. Una sensibilità, però, che non ha sempre un risvolto pratico coerente. Vediamo perché.
Secondo la ricerca The Future of Retail Store and Customer Engagement in the New Normal, i fattori chiave che guideranno gli acquisti nel prossimo futuro sono il benessere delle persone, l’attenzione alla filiera e al rapporto qualità-prezzo e, soprattutto, un nuovo modo di intendere la sostenibilità.
Realizzata tra gennaio e febbraio di quest’anno dagli studenti del MAFED – il Master in Fashion, Experience & Design Management di SDA Bocconi – l’indagine coinvolge un campione di 560 consumatori di tutte le fasce di età residenti in diverse parti d’Europa.
I dati che emergono evidenziano molteplici tendenze, tra cui il passaggio da un mercato Business to Business (B2B) a uno Human to Human (H2H), la graduale perdita di valore del semplice “Made in”, il boom del second hand e via dicendo.
Da assistente alla vendita a influencer il passo è breve
È convinzione diffusa che le assistenti alla vendita diventeranno delle vere e proprie influencer. Un segnale da tenere sott’occhio per le aziende che vogliono stare al passo e che potrebbero dover formare i propri dipendenti in tal senso.
Il segnale, tra l’altro, ben si collega al fenomeno che spopola in Cina già da qualche anno, ovvero il live-streaming e-commerce, una modalità di vendita in diretta mista a intrattenimento in cui gli influencer ingaggiano i propri follower con offerte spesso limitate nel tempo. Nemmeno a dirlo, i protagonisti di questo fenomeno sono gli appartenenti alla Gen Z e alla Gen Y.
La crisi del “Made in”
Dalla ricerca emerge che la dicitura “Made in” non significherebbe più molto, per giovani e giovanissimi. Se in un passato non molto lontano bastava leggere “Made in Italy” per stare sereni, adesso l’asticella si è alzata: la Gen Z vuole maggiori dettagli su trasparenza e tracciabilità della filiera. Per i nuovi consumatori, insomma, un prodotto “Made in China” corredato di informazioni sulla sua tracciabilità può avere maggior valore di prodotto “Made in Italy” che ne sia sprovvisto.
Gen Z e il boom del second hand
Una tendenza che emerge dalla ricerca della Bocconi riguarda il fenomeno del pre-owned, che vede in prima linea ancora una volta le nuove generazioni. L’indagine evidenzia come il 69% dei consumatori sia disposto a pagare un premium price per comprare vestiti di seconda mano verificati dai brand, contribuendo così al modello di economia circolare.
Erica Corbellini, docente in Fashion & Luxury Management della SDA Bocconi School of Management, afferma: “Il fenomeno del pre-owned, che potrebbe essere percepito come una minaccia, permette in realtà ai marchi di moda di allungare il ciclo di vita dei prodotti, contribuire all’economia circolare e rendere determinati prodotti più accessibili anche a nuove categorie di consumatori”. Ne è un ottimo esempio la decisione di Kering di acquistare una quota di Vestiaire Collective – la piattaforma leader nel settore dell’usato – perché conferma che il futuro della moda passerà anche per il second-hand.
Secondo François-Henri Pinault, Presidente e CEO di Kering, “il lusso second-hand è ormai una realtà con radici consolidate, specialmente tra i consumatori più giovani”.
Grégory Boutté, Chief Client e Digital Officer di Kering, aggiunge: “La nostra strategia innovativa mira a investire nei brand e nelle tecnologie della prossima generazione di cons umatori, proponendo modelli di business all’avanguardia che ci consentano di servire ancora meglio i nostri clienti e di migliorare la nostra performance. Investire in Vestiaire Collective è assolutamente coerente”.
Nuove abitudini di consumo
Sul fenomeno del pre-owned, citiamo un’altra ricerca pubblicata da Thred UP – il negozio online di consegna dell’usato – dal titolo 2021 Resale Report. Se ne ricava, fra le altre cose, che le nuove generazioni stanno alimentando l’ascesa del second hand. Prime a pari merito con il 46% le donne della Gen Z e della GenY, seguite con il 38% dalle donne della Gen X e dalle Baby Boomers con il 20%.
Lo stesso Report evidenzia come la Gen Z abbia sviluppato una mentalità completamente nuova sul consumo di abbigliamento. Ad esempio, i più giovani sono il 165% più propensi dei Baby Boomers a considerare il valore di rivendita dei vestiti prima di procedere con l’acquisto e l’83% più propensi a concordare sul fatto che la proprietà dei capi di abbigliamento sia temporanea. Hanno inoltre il 33% di probabilità in più di rivendere gli abiti acquistati.
Sono dati, questi, coerenti con il quadro tratteggiato da un recente articolo di Bloomberg, dal titolo Gen Z’s Used Clothing Hacks Won’t Save the Earth. Qui, si evidenzia come la Gen Z abbia contribuito all’ascesa di piattaforme di rivendita di abbigliamento come Vinted e Depop e app di noleggio come Hurr e By Rotation.
Se il fenomeno del second hand è una strada per ridurre gli sprechi e allungare la vita degli abiti, la rivalorizzazione fai da te dei capi è una storia diversa. Sono tanti i video tutorial diffusi sui social network in cui i giovani influencer dispensano pratici consigli su come dare nuova vita ai vestiti. Hashtag come #knitting e #thrifthaul fanno milioni di visualizzazioni su Tik Tok – un trend figlio della pandemia che ha riportato in auge mestieri manuali come il lavoro a maglia e all’uncinetto e il fai da te più in generale.
Gen Z e sostenibilità: quanto è vero il binomio?
Studi, ricerche e articoli concordano nel rappresentare i più giovani come il volano di una rivoluzione sostenibile. Ma è davvero così? Perché, in questo caso, l’hashtag #Sheinhaul ha 2,3 miliardi di visualizzazioni su Tik Tok mentre hashtag come #knitting e #thrifthaul ne hanno decisamente meno?
Shein è lo store di moda ultra-economica e ultraveloce, Shein Haul è la pratica che consiste nel mostrare – e promuovere – gli abiti a marchio Shein attraverso video o foto sui social. L’app di shopping Shein, inoltre, è la più scaricata negli USA e i maggiori acquirenti del brand appartengono alla Gen Z.
Le motivazioni alla base di questa contraddizione sono di varia natura. La prima, probabilmente, deriva dalla pressione dell’online. Ovvero di un mondo che ha sempre sete di contenuti (e abiti) nuovi e che non agevola il consumo sostenibile, specie da parte di ragazzi nati nell’era del digitale.
“Fast fashion e social media si rispecchiano nel modo in cui forniscono dopamina e gratificazione immediata”, spiega la psicologa della moda Shakaila Forbes-Bell. “Pratiche di moda più sostenibili come la slow fashion contrastano con tutto ciò che i social media sono davvero e cioé velocità, novità, brillantezza”.
La moda a noleggio
C’è da dire che tanti appartenenti alla Gen Z non hanno un proprio stipendio e per loro risulta quindi più difficile comprare abiti sostenibili che di prassi costano ancora di più.
“Viviamo in un momento storico in cui le produzioni si stanno gradualmente convertendo in produzioni sostenibili”, sottolinea Francesca Rulli, ideatrice del marchio e sistema di certificazione della moda sostenibile 4sustainability. “La tracciabilità del prodotto, l’attenzione alle persone e ai loro diritti, alla loro sicurezza e al loro benessere, l’uso più accorto di acqua ed energia, l’uso di chimica sostenibile, la riduzione delle emissioni in atmosfera… Tutto questo rende sicuramente più costoso il prodotto sostenibile, perché più importante è anche il suo valore. I consumatori, soprattutto i più giovani, stanno iniziando a farsi queste domande, il che li predispone a scelte più consapevoli o alternative, come il riuso o il noleggio”.
Insomma, la tendenza è comprare meno ma bene – che poi vuol dire avere guardaroba meno pieni, dove riporre capi e accessori di migliore qualità e dunque più durevoli – optando in alternativa per il ranting. Uno studio della Washington State University ha evidenziato che proprio la Gen Z è la più orientata al noleggio di capi, con il 55% del campione che lo ha già sperimentato proprio per una maggiore attenzione a comportamenti di consumo meno impattanti e più responsabili.
La stessa tendenza era stata rilevata anche dall’Altagamma Consumer Insight, pubblicato lo scorso giugno: Millennials e Gen Z stanno guidando la crescita dell’industria del lusso, ne rappresenteranno il 60% dei clienti nel 2025 e saranno i pionieri del renting. Il 21% di loro è propenso a questo tipo di servizio, contro il 9% delle altre generazioni. Secondo Allied Market Research, entro il 2023 il business della moda a noleggio raggiungerà un valore di oltre 1,9 miliardi di dollari.
Il noleggio di abiti è l’opposto del fast fashion e rappresenta una perfetta soluzione per chi sogna un vasto guardaroba che non alimenti sprechi e inquinamento.
Una conferma ci viene in tal senso dagli Stati Uniti, dove secondo uno studio pubblicato da Rent the runway, uno dei più diffusi servizi di noleggio abiti, attivo dal 2010, la sua attività avrebbe evitato finora la produzione di circa 1,3 milioni di nuovi capi. Sempre secondo questo studio, noleggiare un abito anziché acquistarlo permette di consumare il 24% in meno di acqua, abbattere il consumo energetico del 6% e far scendere le emissioni di CO2 del 3%.