In un’epoca in cui la sostenibilità è diventata una parola d’ordine, la moda si trova ad affrontare una sfida cruciale: come garantire che i capi e gli accessori che indossiamo abbiano un impatto positivo non solo sull’ambiente, ma anche sulle persone che li producono e sulla collettività?

Dietro a ogni fibra e materiale, c’è una storia complessa fatta di processi produttivi, catene di fornitura globali e ricadute sull’ambiente e sull’essere umano che i consumatori per lo più ignorano. Una mancanza di consapevolezza che si riflette anche nelle scelte dei brand.
Le fibre naturali come il cotone e la lana, per esempio, sono spesso percepite come più “ecologiche”, ma in realtà nascondono complessità legate all’impatto climatico, sociale e chimico dei processi necessari per lavorarle. Per contro, le fibre sintetiche e rigenerate, che hanno di base una reputazione peggiore, sembrano guadagnare terreno grazie a progetti di economia circolare che di rado, tuttavia, prendono in considerazione la gestione del fine vita.

La difficoltà di informarsi

La maggior parte dei consumatori, ma anche tanti professionisti della moda, non hanno una conoscenza approfondita dei materiali utilizzati nella produzione di capi e accessori. La carenza di informazioni e interesse è diffusa, spesso aggravata dalla frammentazione dei processi e dall’assenza di trasparenza.

Secondo uno studio di McKinsey & Company, il 66% circa dei consumatori globali reputa importante che i brand promuovano i contenuti di sostenibilità dei propri prodotti. Le informazioni disponibili “a bordo” di capi e accessori, però, non solo scarseggiano, ma quelle poche sono presentate in modo complesso, il che alimenta la confusione e la sfiducia nella credibilità di quanto affermato.
Ne deriva – altro dato eloquente – che solo il 32% dei consumatori dichiara di fare scelte consapevoli e solo il 10%, fra loro, è in grado di identificare correttamente i materiali sostenibili.

Fibre naturali e sintetiche

Le fibre naturali sono di base versatili, confortevoli, traspiranti e biodegradabili. Hanno molte virtù, ma sono sempre da preferire? I contenuti di sostenibilità di quelle prodotte nel Tier 4 – la parte più a monte della filiera produttiva, spesso legata alla materia prima utilizzata per la realizzazione dei capi – risentono indubbiamente delle connesse pratiche agricole o di allevamento, oltre che delle condizioni climatiche.

Uno studio dell’Università di Adelaide ha evidenziato diverse implicazioni significative del cambiamento climatico sulla produzione di lana in Australia. Ha stimato per esempio che un aumento di 1°C della temperatura globale potrebbe ridurre i tassi di riproduzione delle pecore fino al 20%, con perdite economiche che potrebbero sfiorare i 97 milioni di dollari​ all’anno. Il riscaldamento globale, inoltre, potrebbe comportare una perdita complessiva di 4,3 miliardi di dollari nella produzione di lana, ragione per cui il 50% degli allevatori australiani sta già adottando pratiche di gestione rigenerativa, come forma di contrasto al cambiamento climatico.

L’incremento di produzioni naturali e responsabili è una strada ideale per la riduzione d’impatto, ma sconta la netta prevalenza delle fibre sintetiche in termini di volumi impiegati nella produzione moda. Dobbiamo rendere più sostenibili, dunque, anche le produzioni in sintetico, riutilizzando per quanto possibile ciò che già esiste.

Riciclato e rigenerato

Le fibre riciclate e rigenerate sono alternative sempre più rilevanti in ottica di riduzione d’impatto ambientale. L’economia circolare promuove il recupero e il riuso dei materiali, ma la confusione in questo ambito è ancora tanta e lo rileviamo, banalmente, anche dall’uso diffusamente improprio dei termini.
Parliamo ad esempio della differenza fra rigenerato e riciclato – perché no, non si tratta affatto di sinonimi. Le fibre riciclate sono ottenute dal recupero e trattamento di capi o rifiuti tessili o plastici già esistenti, che altrimenti finirebbero in discarica. Ci sono due tipi principali di riciclo: il riciclo meccanico – basato sulla scomposizione fisica del materiale – e il riciclo chimico, che sottopone le fibre a trattamenti chimici per scomporle e ricrearle. Le fibre rigenerate sono prodotte invece da materiali naturali, ma passano attraverso processi chimici per essere trasformate in nuove fibre. Alcuni esempi comuni sono la Viscosa, il Lyocell, il Cupro…
Entrambe le soluzioni riducono l’impatto ambientale, ma affrontano la sostenibilità da prospettive leggermente diverse: il riciclo è più legato alla riduzione dei rifiuti, mentre le fibre rigenerate si concentrano sull’efficienza dell’uso delle risorse naturali.

I numeri dell’economia circolare

Lasciamo che siano i dati a parlare: fonti Euratex del 2024 ci dicono che il 70% dei tessuti utilizzati per produrre abbigliamento in Europa è composto da fibre vergini, mentre solo il 13% è rigenerato o riciclato. Grazie agli sforzi di alcuni distretti virtuosi come quello pratese, per citare un distretto di casa nostra, questa percentuale sarebbe tuttavia destinata a crescere.

Secondo l’ultimo Preferred Fiber & Materials Market Report di Textile Exchange, nel 2023, a livello globale, solo l’8,9% delle fibre tessili è stato riciclato: la percentuale include sia i materiali pre-consumo (scarti industriali), sia quelli post-consumo (capi usati), ma la parte più rilevante del riciclo proviene ancora dai primi.

Dove vanno a finire abiti, scarpe, accessori… indossati poche volte e poi gettati o addirittura rimasti invenduti? Matteo Ward ce lo spiega nella docu-serie Junk. Armadi pieni, un j’accuse alla sovrapproduzione dell’industria della moda di cui suggeriamo la visione. La consapevolezza che ne ricaviamo è che tanti potrebbero essere utilmente recuperati e reimmessi nei cicli produttivi, invece di alimentare le discariche a cielo aperto in qualche parte del mondo.

Sebbene rientri fra fibre rigenerate più sostenibili, secondo Textile Exchange il cotone riciclato costituisce solo l’1% della produzione globale di cotone: un potenziale enorme non ancora sfruttato, un’evidenza fra le tante dei ritardi che dobbiamo scontare a livello non solo culturale ed educativo, ma anche di infrastrutture per la raccolta e il riciclo di materiali post consumo.

Su questo, il Fashion on Climate Report 2021 e il Circular Fashion Ecosystem Report 2023 di Global Fashion Agenda sono altre due fonti molto interessanti di dati, per lo più convergenti.

Circa l’impatto delle fibre rigenerate sull’ambiente, i due studi ci dicono che l’adozione su larga scala delle fibre rigenerate potrebbe ridurre l’impronta di carbonio dell’industria della moda fino al 39% entro il 2030, se abbinata a una trasformazione sistemica dell’industria verso l’economia circolare. Tuttavia, il settore non è sulla buona strada per raggiungere questo obiettivo e la causa sono i soliti ritardi negli investimenti e nelle infrastrutture evidenziati anche Textile Exchange.

Le disuguaglianze di genere

Un tema spesso trascurato è quello della disparità salariale e delle condizioni lavorative delle donne nel settore tessile e della pelle. Global Fashion Agenda pone l’accento sulla necessità di trasformare non solo i modelli di produzione per ridurre le emissioni di carbonio, ma anche le condizioni di lavoro. Gran parte della produzione tessile globale è concentrata in paesi in via di sviluppo, dove queste condizioni sono spesso precarie, con salari bassi e poca tutela sociale. Le donne sono le più penalizzate: costituiscono circa l’80% della forza lavoro globale nell’industria dell’abbigliamento, ma per lo stesso lavoro guadagnano fino al 40% in meno degli uomini.

In Italia va un po’ meglio, ma siamo lontani dalla parità: nel 2022, secondo l’INPS, le donne del settore tessile guadagnavano mediamente il 19% in meno degli uomini. Un divario che nei settori conciario e della pelletteria risulta ancora più marcato.

La strada verso una maggiore consapevolezza

Da alcuni anni, la sostenibilità e i principi dell’economia circolare sono diventati una vera e propria priorità per il business. I maggiori brand della moda hanno fissato obiettivi di sostenibilità chiari e misurabili, comunicandoli attraverso i loro report non finanziari e ponendo le basi per dotare i propri prodotti di passaporti digitali con una grande quantità di informazioni facilmente accessibili.

L’innovazione tecnologica applicata alla raccolta, allo smistamento e al riciclo dei rifiuti tessili rappresenta una straordinaria opportunità per accrescere i volumi di materiali riciclati, con potenziali e significativi risparmi futuri sui costi.

Educare i consumatori? Indispensabile, anche perché ai segnali di maturazione culturale raramente fanno seguito comportamenti coerenti di acquisto. Ma non sufficiente. I primi da formare sulla sostenibilità e sulla conoscenza dei materiali dovrebbero essere infatti gli operatori del settore, le risorse che lavorano negli uffici-stile dei brand e che hanno in genere poca confidenza con i processi necessari per trasformarli. Questione di certificazioni, certamente. Ma prima ancora di consapevolezza.

Non esiste certificazione, infatti, in grado di ridurre gli impatti della produzione moda, che dipendono dal cambiamento dei modelli produttivi, dalle logiche di sviluppo-prodotto e dalla preferenza per filiere virtuose riconoscibili come tali per livelli di impegno e trasparenza.

Le più recenti normative europee e americane vanno esattamente in questa direzione: Due Diligence di filiera, Sustainable Design, Green Claims, Responsabilità Estesa del Produttore e Digital Product Passport, Reporting di Sostenibilità… sono tutti provvedimenti orientati a promuovere la consapevolezza e la conversione dei modelli produttivi.

L’effetto che produrranno nei prossimi 4-5 anni è un miglioramento drastico dei dati esposti fin qui, grazie al coinvolgimento dei brand, delle aziende della filiera, dei consumatori e degli altri stakeholder in uno sforzo collettivo indispensabile per sostenere la transizione sistemica del settore alla sostenibilità ambientale e sociale.