Nonostante i progressi, il divario salariale di genere resta una realtà nell’industria della moda italiana, dove le donne costituiscono gran parte della forza lavoro ma, salvo eccezioni, continuano a guadagnare meno degli uomini. Comprendere e ridurre questo divario non è solo una questione di giustizia, ma un passaggio cruciale per promuovere un settore realmente equo e inclusivo. Si inserisce in questo solco lo studio Unpacking Pay Equity in Fashion che costituisce lo spunto di questo nostro approfondimento.

Unpacking Pay Equity in Fashion

Lo studio Unpacking Pay Equity in Fashion è stato realizzato da GFA (Global Fashion Agenda) e PwC per investigare il tema della parità di genere nell’industria della moda italiana. Le informazioni su cui si basa derivano dalle interviste a 25 brand, dall’analisi 2024 della Fashion Industry Target Consultation di GFA e UNEP (United Nations Environment Programm), da due tavole rotonde a cui hanno preso parte i dirigenti dell’industria della moda in occasione dell’International Women’s Day e del Global Fashion Summit di Copenhagen e da un sondaggio, infine, condotto su 105 imprese italiane in collaborazione con CNMI (Camera Nazionale della Moda Italiana), Confartigianato Moda e CNA Federmoda.

Le misure legislative per la parità salariale

Negli ultimi anni, la spinta normativa ha fatto sì che sempre più imprese rendicontassero le proprie performance in ambito di parità di genere e salariale. Fra i testi di legge di fonte europea, citiamo:

  • la Direttiva 2023/970 sulla trasparenza retributiva, che obbliga i datori di lavoro delle aziende con oltre 100 dipendenti a divulgare informazioni sulle retribuzioni
  • la Direttiva sulla Rendicontazione di Sostenibilità (CSRD), che impone una rendicontazione dettagliata sulla sostenibilità societaria in relazione a varie tematiche, tra cui l’uguaglianza e il divario salariale di genere (per le aziende con oltre 500 dipendenti, entrerà in vigore nel 2025)
  • la Direttiva sulla Due Diligence di Sostenibilità (CSDDD), che interviene indirettamente sul divario salariale di genere in quanto affronta gli aspetti di DD, appunto, relativi a problematiche ambientali e sociali

In Italia, anche la Legge 162/2021 rappresenta un passo importante verso l’uguaglianza di genere sul lavoro:

  • perché abbassa a 50 dipendenti – prima erano 100 – la soglia per le aziende obbligate a redigere un rapporto biennale sulla situazione del personale, con informazioni dettagliate su assunzioni, retribuzioni, avanzamenti di carriera e formazione analizzate in ottica di genere;
  • perché istituisce una certificazione di parità che premia le aziende virtuose con incentivi fiscali e premialità negli appalti pubblici;
  • perché rafforza la supervisione del Consigliera/e di parità, con la possibilità di segnalare al Ministero del Lavoro eventuali inadempienze;
  • perché prevede sanzioni per le aziende inadempienti e agevolazioni per quelle che dimostrano invece un impegno nella riduzione del gender gap.

La risposta delle aziende

E le aziende come si stanno muovendo? Un sondaggio condotto a livello globale da GFA e UNEP sugli stakeholder dell’industria della moda ha rilevato un aumento del 35% degli obiettivi di parità salariale tra il 2022 e il 2023 e un aumento del 49% degli obiettivi legati alle politiche di Diversity, Equity and Inclusione (DE&I). Solo il 52% dei brand, tuttavia, ha dichiarato di lavorare sugli obiettivi di parità salariale. Scarsa programmazione? Mancanza di strumenti adeguati?

Secondo lo studio, gli investimenti in attività di audit e monitoraggio sono consistenti, ma manca una piena visibilità dei salari dei fornitori. Sollecitati in tal senso, i brand interpellati hanno riconosciuto la necessità di trovare soluzioni condivise e standardizzate, piuttosto che di procedere ognuno per sé. E questo è un bene, se dalle buone intenzioni germoglieranno progetti concreti, perché le sfide da superare nei tempi dettati dal legislatore e dal mercato esigono un approccio fondato sulla collaborazione fra stakeholder e sull’interoperabilità fra sistemi.

Definizioni e misure del divario retributivo di genere

Per divario retributivo di genere s’intende la differenza tra i salari lordi di donne e uomini calcolata sulla retribuzione media dei dipendenti, tenendo in considerazione le imprese con più di dieci dipendenti e tutti i lavori ad esclusione e del settore agricolo, della difesa e degli enti sovranazionali.

Esistono tre forme distinte di misurazione del divario salariale di genere:

  • Unadjusted gender pay gap | La differenza tra il salario orario medio degli uomini e quello delle donne espressa come percentuale del salario maschile.
  • Explained gender pay gap | La differenza tra il salario orario medio degli uomini e quello delle donne giustificata da caratteristiche misurabili dei dipendenti e dell’impiego – età, livello d’istruzione, settore, seniority – espressa come percentuale del salario maschile: se il valore è negativo, significa che le caratteristiche delle donne giustificherebbero un salario orario superiore a quello degli uomini.
  • Unexplained gender pay gap | Il divario salariale di genere vero e proprio, dato dalla differenza tra i divari unadjusted ed explained. Si tratta, in poche parole, della componente del divario salariale che non può essere giustificata da nessun fattore se non quello di genere.

Il trend in Italia

Tra il 2012 e il 2022, in Europa, il divario salariale di genere è diminuito. L’Italia, in particolare, ha registrato un unadjusted gender pay gap pari al 4,3% – nel 2018 era del 5,5% – contro una media europea del 12,7%. È un dato molto buono, dovuto in parte alla maggior rappresentanza nella forza lavoro di donne con un elevato livello d’istruzione e con lavori coerentemente ben retribuiti. Le donne con un livello di istruzione minore – e con un salario tendenzialmente più contenuto – hanno invece un tasso più basso di partecipazione al mercato del lavoro.

L’industria manifatturiera della moda si discosta da questo quadro, perché è caratterizzata da una sovra partecipazione delle donne rispetto alla media della manifattura italiana, soprattutto in ruoli non manageriali.

Le persone impiegate nell’industria della moda italiana sono 600.000. Nel 2022, le donne rappresentavano circa il 60% della forza lavoro nei settori tessile e abbigliamento, il doppio rispetto alla presenza femminile nell’intero settore manifatturiero italiano.
Il numero delle donne nei CdA delle aziende del settore è in aumento, ma i progressi sono lenti e faticosi anche per via del fatto che le iniziative di legge in materia non interessano ancora le aziende piccole e piccolissime che costituiscono il grosso del settore. Parliamo in tutto di circa 60.000 aziende, l’81,3% delle quali hanno meno di 10 dipendenti. Il 18,5% sono PMI (10-249 dipendenti), mentre solo lo 0,2% sono classificabili come grandi imprese (più di 250 dipendenti).

Il settore moda, abbiamo detto, vede una forte concentrazione di donne nelle posizioni meno remunerate, il che contribuisce ad ampliare il divario salariale complessivo, evidenziando una disparità non solo nella retribuzione, ma anche nelle opportunità di crescita e accesso a ruoli di leadership. Mentre il settore manifatturiero, in generale, sembra mostrare un trend positivo, le dinamiche specifiche della moda riflettono una situazione complessa affrontabile solo con interventi strutturali.

Azioni per una moda più equa

Per raggiungere l’equità retributiva nell’industria manifatturiera della moda in Italia è necessario uno sforzo culturale collettivo a supporto, soprattutto, delle PMI e delle imprese artigiane.

Possiamo riassumere come segue le azioni da portare avanti per accelerare i progressi del settore in un ambito tanto cruciale per il suo sviluppo.

  • Sostenere l’uguaglianza di genere, di cui la parità retributiva rappresenta solo un aspetto
  • Sviluppare strumenti e pratiche di approvvigionamento adeguati al contesto italiano
  • Stabilire una metodologia unitaria per misurare l’equità salariale all’interno dei brand ed evitare sovrapposizioni e discrezionalità nelle valutazioni da parte dei produttori
  • Sensibilizzare le aziende italiane ai temi della disparità salariale di genere e del maggiore coinvolgimento femminile nelle posizioni apicali e nei processi decisionali
  • Aumentare la tracciabilità e la trasparenza per costruire una catena del valore sempre più equa e sostenibile nelle retribuzioni

Il dovere di crederci

Lo studio Unpacking Pay Equity in Fashion e altre ricerche analoghe offrono una rappresentazione dell’industria della moda e del mondo del lavoro in genere ancora molto orientati al maschile: le donne in posizioni di vertice sono poche e quelle poche hanno alle spalle percorsi di carriera costellati di fatica e rinunce importanti sul piano personale.

La consapevolezza dei ritardi da colmare – sottolinea Francesca Rullinon deve diventare un alibi per rinunciare, come donne, alle nostre ispirazioni e ai nostri sogni. La parità retributiva, l’assunzione di responsabilità manageriali, l’equilibrio tra lavoro e sfera privata sono obiettivi in cui abbiamo il dovere di credere. L’ambito della sostenibilità è in questo senso incoraggiante: secondo LinkedIn, il 49% delle professioniste del settore ESG globale sono donne, una quota significativa che testimonia la loro crescente presenza in posizioni chiave. Inoltre, il Deloitte Women in the Boardroom Report 2023 rileva che in Europa, grazie a politiche di quota e iniziative mirate, le donne rappresentano il 40% delle posizioni nei CdA in Paesi come Francia e Norvegia. Questi risultati confermano che un cambiamento è possibile e che il contributo femminile è sempre più essenziale per la leadership sostenibile. Credere in questa trasformazione può contribuire a renderla reale”.