È uscita il 22 marzo la proposta di Green Claims Directive sulla fondatezza delle comunicazioni ambientali. L’approvazione da parte del Parlamento e del Consiglio Europeo è attesa per la metà del 2024.
La Green Claims Directive nasce con l’obiettivo di incentivare in tutti i Paesi dell’Unione il ricorso a green claim chiari, affidabili e verificabili, in grado di tutelare il consumatore nelle sue scelte e uniformare i criteri di etichettatura e verifica dei dati di sostenibilità.
Un’ottima notizia e tutti contenti! Non proprio, alla luce delle aspettative della vigilia e della bozza di proposta, dai contenuti decisamente più rigorosi, trapelata un paio di settimane prima della pubblicazione ufficiale del testo. Ci sono settori e settori, però. E per il mondo moda, le novità sono significative, non solo a livello simbolico.
I numeri del green washing
Alle origini della proposta della Commissione UE ci sono due indagini condotte sulle dichiarazioni di sostenibilità nel 2014 e nel 2020. È stato preso in considerazione un campione di 150 claim ambientali riferiti a prodotti di diversa tipologia e valutati secondo quattro parametri: chiarezza, univocità, accuratezza e verificabilità.
Secondo l’indagine del 2020, il 53,3% delle dichiarazioni forniva informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche dei prodotti in esame. Nel 40% dei casi, mancava il supporto dei dati: impossibile dimostrare la veridicità di quanto asserito.
Una conferma ci viene anche da una ricognizione dell’Autorità di Cooperazione per la Tutela dei Consumatori effettuata ancora nel 2020, che ha analizzato 344 dichiarazioni di sostenibilità. Nel 57,5% dei casi, si è rilevata l’assenza di elementi sufficienti a giudicare la correttezza della dichiarazione, nel 50% la difficoltà di stabilire se la dichiarazione si riferisse all’intero prodotto o soltanto a una sua componente, all’azienda oppure solo a determinati prodotti (36%) e quale fase del ciclo di vita del prodotto effettivamente coprisse.
I benefici previsti
Nulla contrasta gli esercizi di greenwashing come la chiarezza, l’affidabilità e la verificabilità dei dati. Prevenire il greenwashing nelle sue varie espressioni favorisce la diffusione di modelli di economia circolare perché indirizza i comportamenti d’acquisto in senso tale da influire sulle strategie produttive delle aziende: più consapevolezza, più acquisti responsabili, maggiore spinta sulle aziende a implementare progetti concreti di sostenibilità.
Un altro vantaggio deriva dall’introduzione di parametri condivisi per l’inserimento in etichetta di dati di sostenibilità, che evidentemente devono poter essere anche verificati. Standardizzare aiuta la chiarezza e limita la proliferazione di etichette ambientali e marchi di qualità ecologica che coprono aspetti diversi, adottano approcci operativi diversi e sono soggetti a forme diverse di controllo.
Gli impatti sull’impresa
I destinatari della proposta sono tutte le imprese che operano in territorio UE con oltre 10 dipendenti e un fatturato superiore ai 2 milioni di Euro.
Per le microimprese che volessero comunque far parte della transizione verde, sono previste misure idonee di accesso al credito e assistenza tecnico-organizzativa. Per tutte le altre, è evidente che dovranno sostenere il costo dell’investimento a monte, ma questo dipenderà in gran parte dal tipo di dichiarazione ambientale applicata a quanti prodotti. È intuibile, per esempio, che un claim sull’intero ciclo di vita un prodotto richiederà un investimento significativamente superiore a quello necessario per una dichiarazione incentrata su un singolo attributo di prodotto: il packaging ecologico, per esempio.
Requisiti minimi richiesti
Per evitare dichiarazioni vaghe, fuorvianti o ingannevoli, la Green Claims Directive prevede che la fondatezza delle asserzioni ambientali esplicite poggi su una valutazione che soddisfi una serie di requisiti minimi. La valutazione dovrà, per ogni prodotto:
- provare la rilevanza degli impatti e delle prestazioni dal punto di vista del ciclo di vita;
- basarsi su prove scientifiche riconosciute e conoscenze tecniche all’avanguardia;
- dimostrare se l’indicazione è accurata per l’intero prodotto o solo per parti di esso;
- tenere conto di tutti gli aspetti e degli impatti significativi per valutare la performance;
- stabilire se un risultato positivo implica un peggioramento significativo di un altro impatto (cambiamento climatico, consumo risorse e circolarità, uso sostenibile e salvaguardia delle risorse idriche e marine, inquinamento, biodiversità, benessere di animali ed ecosistemi);
- fornire informazioni sul fatto che il prodotto abbia prestazioni ambientali significativamente migliori rispetto alla pratica comune;
- comunicare in modo trasparente e dettagliato le compensazioni dei gas a effetto serra, specificando per esempio se tali compensazioni si riferiscono a riduzioni o rimozioni delle emissioni e descrivere in che modo le compensazioni sono contabilizzate per riflettere l’impatto dichiarato sul clima.
Limiti…
La Direttiva UE sui Green Claims è una buona notizia di per sé, ma le fila dei delusi s’ingrossano via via che se ne “digeriscono” i dettagli. Sembra infatti che la versione circolata giorni prima in via ufficiosa facesse riferimento a un metodo scientifico precisato per poter sostanziare le comunicazioni di natura ambientale, riferimento che nel testo ufficiale sparisce. Alle imprese si raccomanda semplicemente di fondare le loro affermazioni su generiche evidenze scientifiche, lasciando una discrezionalità che non aiuta evidentemente l’armonizzazione dei criteri.
L’osservazione è di base corretta, ma bisogna tenere conto del contesto. Ci sono settori più pronti di altri e la moda, ahimè, non è fra questi. Un grosso scoglio, oltre alla sua frammentazione congenita, sta nella difficoltà estrema di raccogliere i dati d’impatto relativi ai vari processi e alle diverse realtà coinvolte nella produzione. Ottenere misurazioni basate su evidenze scientifiche e dati primari – condivisi cioè da fornitori che contribuiscono direttamente alla realizzazione del prodotto – è una sfida impegnativa da moltiplicare, oltretutto, per centinaia di prodotti differenti inseriti in collezione.
…e opportunità
Per l’industria del fashion & luxury, la Green Claims Directive è un’opportunità e una spinta a stringere i tempi. Entro la sua definitiva entrata in vigore, le aziende dovranno dotarsi infatti di un sistema di ingaggio dei propri fornitori e di raccolta e gestione dei dati d’impatto fondato su metodologie riconosciute.
“I brand potranno rispondere in modo credibile alla normativa in arrivo solo rivolgendosi stabilmente a fornitori preparati, collaborativi e supportati da metodi e piattaforme IT di raccolta dati”, rileva Francesca Rulli. “Con 4sustainability® andiamo esattamente in questa direzione: strutturare filiere sostenibili, applicare metodi riconosciuti per la misurazione degli impatti e la condivisione dei dati con i clienti. E costruire claim di sostenibilità a norma di legge”.