“Climate justice beliefs related to climate action and policy support around the world” è il titolo di una ricerca pubblicata ad ottobre da Nature Climate Change, rivista mensile britannica specializzata nell’indagare le cause del cambiamento climatico, i suoi impatti sull’ambiente e le sue implicazioni per l’economia, la politica e la società. Il focus dello studio è la giustizia climatica o, per essere più esatti, la percezione che ne ha l’opinione pubblica. I dati di sintesi che vi proponiamo diventano lo spunto per alcune riflessioni sulle iniziative di contrasto al cambiamento climatico, con particolare riguardo al contributo che l’industria della moda può e deve dare in quanto parte in causa..

Di giustizia climatica si parla sempre più spesso sui media, ma quanto ne sa davvero l’opinione pubblica? Un sondaggio condotto nel 2022 su 5627 adulti in 11 Paesi del Nord e Sud del mondo (Australia, Brasile, Germania, India, Giappone, Paesi Bassi, Nigeria, Filippine, Emirati Arabi, Regno Unito e Stati Uniti) ha evidenziato la diffusione di alcune convinzioni in materia – il riconoscimento, per esempio, dell’impatto sproporzionato del cambiamento climatico sulle popolazioni povere e delle responsabilità che capitalismo e colonialismo hanno avuto e tuttora hanno nella crisi climatica – ma ha restituito anche un poco incoraggiante 66,2% di persone che ammette di non aver mai sentito parlare di giustizia climatica.

Una definizione di giustizia climatica

La giustizia climatica è un approccio alla gestione della crisi climatica che considera le sue dimensioni etiche e sociali, oltre a quelle ambientali. Si fonda sull’idea che gli impatti della crisi non siano distribuiti in modo uniforme: a subirne gli effetti più gravi sono soprattutto le popolazioni più vulnerabili e i Paesi meno sviluppati, spesso i meno responsabili delle emissioni di gas serra. Partendo da questa consapevolezza, la giustizia climatica punta a equilibrare le responsabilità e i benefici delle soluzioni, promuovendo risposte incisive e rispettose dei diritti umani.

(In)consapevolezza generalizzata

La consapevolezza della giustizia climatica è modesta in tutto il mondo. Fanno in parte eccezione l’India e gli Emirati Arabi Uniti, dove l’incidenza sul campione di intervistati con istruzione universitaria era però anche la più alta. Il nesso è evidente: maggiori gli strumenti di conoscenza, maggiore la possibilità di formarsi un’idea sui principi della giustizia climatica.
I più consapevoli della giustizia climatica sono i giovani tra 25 e 34 anni, seguiti a ruota da quelli tra 18 e 24 anni, mentre non si rilevano differenze significative tra uomini e donne.

Conoscenza, esperienza e attivismo

La conoscenza e le convinzioni sulla giustizia climatica sono strettamente correlate all’impegno nell’azione per il clima e al sostegno a buone politiche climatiche. L’entità di queste relazioni varia da Paese a Paese: più forti in Australia, Brasile e Stati Uniti, meno in Nigeria e nelle Filippine. Non è un caso, secondo lo studio: il legame tra convinzioni sulla giustizia climatica e mobilitazione personale è più consistente nei Paesi che storicamente contribuiscono di più alle emissioni globali di gas serra e in cui le disuguaglianze sociali sono politicamente più rilevanti. Ricerche precedenti dimostrano che le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo sono meno disposte a fare “sacrifici” per la protezione dell’ambiente, poiché assegnano ai Paesi più ricchi e impattanti la responsabilità di contrastare il degrado ambientale di cui hanno anche la colpa maggiore.

Una maggiore adesione alle convinzioni sulla giustizia climatica è stata associata anche alle percezioni personali del cambiamento climatico. I disastrosi effetti dell’alluvione di Valencia ce ne danno un esempio drammaticamente attuale: l’atteggiamento delle persone sta cambiando nel senso di una maggiore consapevolezza e di preoccupazioni crescenti. Un trend che può essere utilmente sfruttato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla giustizia climatica, evidenziando ad esempio le disparità sociali nell’impatto di eventi meteorologici gravi e richiamando l’attenzione sulle disuguaglianze strutturali che sono alla base di queste disparità.

Le voci del cambiamento

Una sentenza dello scorso aprile della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riconosce la mancata adozione ed efficace implementazione di azioni di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico come una violazione dei diritti umani. La causa su cui la Corte si è pronunciata è stata promossa dall’associazione svizzera KlimaSeniorinnen – circa 2.300 donne dell’età media di 75 anni, già soprannominate mediaticamente “anziane per il clima” – che hanno denunciato gli impatti del cambiamento climatico sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita. Queste donne hanno lamentato il fatto che sia la legislazione climatica in vigore in Svizzera che la sua applicazione fossero inadeguate e che il governo elvetico non stesse facendo tutti gli sforzi possibili per far fronte alla crisi climatica. È una sentenza illuminante, nel suo piccolo, che ci dice quale potente impulso l’attivismo possa dare anche alla formazione di un diritto in materia.

Un altro esempio importante ci viene dalle coalizioni globali che operano da una decina di anni in ambito moda e che hanno favorito, con il loro approccio aggregativo finalizzato al raggiungimento di obiettivi condivisi, l’accelerazione del legislatore su temi centrali per la riduzione degli impatti come la trasparenza delle filiere globali, la produzione responsabile, il Passaporto Digitale di Prodotto.

Impatti e doveri dell’industria della moda

Gli impatti ambientali e sociali dell’industria della moda si inseriscono in un contesto di giustizia climatica laddove le popolazioni più vulnerabili subiscono gli effetti di una produzione eccessiva e di pratiche non etiche. Se la sovrapproduzione alimenta il cambiamento climatico, essa incide infatti anche sulle condizioni di vita e di lavoro delle comunità di produzione nei Paesi a basso reddito, in cui i diritti sono troppo spesso trascurati.

Ora, sui reali impatti dell’industria della moda assistiamo in questo periodo a una sorta di “revisionismo storico”. Non è in discussione che ne abbia e anche di importanti. Il problema è la fondatezza dei dati che dovrebbero quantificarli e che vengono ribattuti subendo ad ogni passaggio un qualche tipo di distorsione stile “telefono senza fili”. Approfondire lo spunto ci porterebbe fuori tema e poco importa, comunque, quale esatta posizione la moda si meriti di occupare nella classifica delle industrie più impattanti: l’utilizzo che fa delle risorse umane e naturali, la sovrapproduzione che ne caratterizza globalmente i modelli di business e la corsa che alimenta all’acquisto indiscriminato sono sotto gli occhi di tutti. Ed è su queste evidenze che bisogna intervenire.

Produrre meno e meglio è la priorità fra le priorità”, afferma Francesca Rulli. “Bisogna poi educare il consumatore a comprare sulla base dei suoi bisogni effettivi, invece che su quelli indotti, preferendo capi di qualità progettati per durare nel tempo, realizzati secondo i principi dell’economia circolare attraverso processi sostenibili e responsabili.
I volumi del fast fashion e dell’ultra fast fashion alimentano il modello opposto, non è difficile da capire… Se per produrre una maglietta occorrono 2700 litri d’acqua e un per un paio di jeans ce ne vogliono 3800, cosa costa moltiplicare questi valori per milioni di pezzo ogni anno? Se per soddisfare la domanda che ho contribuito a generare devo stressare all’inverosimile i tempi di produzione, quante persone dovrò far lavorare fuori orario e in quali precarie condizioni di sicurezza? Più volumi, più impatti, meno giustizia climatica e sociale
”.

Il caso Italia

Le filiere del fast fashion e dell’ultra fast fashion non sono tipicamente quelle italiane, dove operano aziende impegnate in percorsi misurabili di tracciabilità, riduzione d’impatto e miglioramento dei luoghi e delle condizioni di lavoro. La strada da fare è ancora tanta, ma tanti sono anche i casi virtuosi capaci di fare scuola.
Nella community 4sustainability – prosegue Rulli – ne contiamo centinaia: aziende che si misurano, che riducono i propri impatti con investimenti importanti sui processi, sulle persone, sui macchinari e sulle fabbriche e che talvolta, purtroppo, si vedono penalizzate dai brand per pure logiche di prezzo e di marginalità.

4s PLANET è il protocollo del framework 4sustainability per la riduzione degli impatti ambientali del sistema moda e il presidio dei temi del cambiamento climatico e della giustizia climatica. Tagliare le emissioni di gas serra in atmosfera è tra le sfide maggiori, al centro non a caso dei progetti di decarbonizzazione che alcuni brand stanno portando avanti insieme alle loro filiere.

“Si misurano i consumi della fabbrica, dei processi complessivamente intesi o di una specifica fase di produzione, talvolta del singolo impianto… Tutto questo per individuare il potenziale di riduzione e il piano degli interventi più idoneo a realizzarlo. Facile pensare al fotovoltaico sul tetto o all’acquisto di energia verde, ma la vera partita si gioca sulla trasformazione dei processi. È qui che 4s PLANET mostra la sua utilità, nel costruire, cioè, un percorso di conversione in cui ogni azione richiede impegno e investimenti, da parte delle realtà produttive, che i brand sono chiamati a supportare”.

Concludendo

La giustizia climatica, in definitiva, non è soltanto una questione di riconoscimento e responsabilità, ma anche di azioni concrete che riflettano questi principi. Se l’opinione pubblica globale si dichiara ancora poco informata o consapevole del concetto, è proprio questo il terreno su cui intervenire: rendere visibili le disuguaglianze nell’impatto della crisi climatica e promuovere la consapevolezza dei doveri che tutti – ma soprattutto chi è più responsabile – hanno verso le persone e l’ambiente. Il settore della moda, in particolare, non può sottrarsi a quest’obbligo: deve cambiare i propri modelli per produrre meno e meglio, premiare le filiere più virtuose, valorizzare le persone e favorire il radicamento di una cultura del consumo fondata sui bisogni reali e sulla sostenibilità dei prodotti.