S’intitola The young consumer and a path to sustainability il report pubblicato a febbraio da Credit Suisse Research Institute (CSRI) sul modo in cui i consumatori più giovani interpretano e vivono il cambiamento climatico attraverso i loro comportamenti d’acquisto. Gli intervistati sono 10mila fra i 16 e i 40 anni, provenienti da Brasile, Cina, Francia, Germania, India, Messico, Regno Unito, Svizzera, Sud Africa e Stati Uniti. Un campione che rappresenta già oggi il 48% della spesa globale dei consumatori ma che, secondo le stime, potrebbe crescere fino al 69% entro il 2040.
Chi sono e dove vivono i consumatori più attenti alla sostenibilità
Eugène Klerk, responsabile Global ESG & Thematic Research di Credit Suisse, sottolinea il dato ormai acquisito per cui i giovani prendono molto più sul serio la questione climatica rispetto alle generazioni precedenti, comprendendone la gravità e preparando la strada verso il cambiamento. “I Millennials – rileva – conoscono e s’ispirano all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile più della Generazione Z, mentre i consumatori dei mercati emergenti si dimostrano a sorpresa più impegnati sul fronte ambientale di quelli dei mercati più sviluppati”.
Altra evidenza poco scontata è che in Messico, India e Cina vive la quota più alta di consumatori attenti all’ambiente, disposti ad accettare norme più rigide, a pagare un prezzo maggiore per prodotti più sostenibili e a dirottare i propri acquisti su alternative green. Per i giovani consumatori di Francia, Germania e Stati Uniti sembra delinearsi la tendenza contraria.
I timori per il futuro
Dalla ricerca emerge un alto livello di ansia tra i consumatori più giovani: la maggioranza assoluta del campione si dice infatti preoccupato o molto preoccupato per l’ambiente. E la fiducia in un futuro più sostenibile è bassa: la percentuale di chi ritiene possibile il raggiungimento degli obiettivi di lungo termine di lotta al cambiamento climatico non arriva nemmeno al 30%. Una voce positiva è invece l’intenzione, dichiarata da un corposo 75% di giovani, di assumere abitudini più sostenibili. Il 25% cercherà di convincere amici e familiari a fare lo stesso… Con quali risultati è tutto da vedere.
A lezione di moda sostenibile
Per mostrare le cose da prospettive diverse e contribuire a un cambiamento positivo, la conoscenza è sempre la base. Assunto che emerge con forza anche dall’indagine di Credit Suisse: il 60% dei consumatori intervistati avanza la necessità di affrontare questi temi a scuola, tanto più alla luce della correlazione provata fra livello di istruzione e impegno sulle varie dimensioni della sostenibilità.
Un altro fronte strategico è quello della divulgazione, che significa poi avvicinare un pubblico quanto più ampio possibile a tematiche complesse, ma con implicazioni tangibili nella vita di tutti noi. In questa direzione va il libro di Francesca Rulli Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenbile (Dario Flaccovio Editore), che si rivolge ai consumatori attraverso un linguaggio il più semplice possibile facendo luce su tanti aspetti poco noti o male intesi della moda sostenibile.
“Se con questo volume avrò guadagnato alla causa anche solo un lettore, avrò raggiunto l’obiettivo”, rileva l’autrice, CEO di Process Factory e ideatrice del framework 4sustainability®. Starà a ciascuno di noi, naturalmente, decidere poi se essere o meno parte attiva del cambiamento.
Comportamenti d’acquisto: dove stiamo andando?
Partiamo con le note dolenti: per un quarto degli intervistati, le questioni ambientali non hanno influenzato né la frequenza, né le scelte d’acquisto. Se prendiamo in considerazione il campione, c’è di buono che il 37,8% di chi vive nei mercati sviluppati e il 41,1% di chi vive nei mercati emergenti dichiara di aver cominciato effettivamente a comprare meno capi nuovi. Sintomo (speriamo) di una maggiore consapevolezza dell’impatto enorme che la moda ha sull’ambiente.
Lo confermerebbero anche altri dati come quello relativo alle intenzioni di acquisto più orientate all’etica delle nuove generazioni: il 60% sarebbe incline a passare ad alternative sostenibili e il 25% a non comprare più moda in-sostenibile. Il 20%, purtroppo, ammette di non voler considerare temi ambientali o sociali nei propri acquisti futuri. E soprattutto su questa quota bisognerà lavorare.
I giovani dei mercati sviluppati, secondo il sondaggio, sono più netti nel “condannare” il sistema della moda come non sostenibile dei loro coetanei dei paesi emergenti, ma un po’ meno preoccupati per l’ambiente, un po’ meno propensi a pagare un surplus per capi a contenuto maggiore di sostenibilità. Sembra un paradosso, ma non sempre c’è coerenza, d’altra parte, fra ciò che sappiamo o pensiamo e il modo in cui ci comportiamo: chi fuma è ben consapevole dei rischi che corre, eppure spesso e volentieri non ha alcuna intenzione di smettere.
Un’altra evidenza interessante riguarda l’influenza che la comunicazione può esercitare sui comportamenti d’acquisto. Nei mercati emergenti, il 55% circa degli intervistati utilizza i social media come fonte d’informazione, per farsi un’idea sui prodotti di moda e/o sui brand. Il che se da una parte aumenta le possibilità di reperire informazioni utili, dall’altra amplifica il concetto di responsabilità legata alla trasparenza e alla veridicità di ciò che si comunica.
Il fast fashion perde colpi
Sembrava inarrestabile il fenomeno della fast fashion, quel modello di produzione e consumo di massa che vive sulla proposta continua di nuovi capi a prezzi ridotti e sulla stimolazione dell’impulso all’acquisto. Design allettante, investimento minimo e vita breve… con ovvie ripercussioni sul clima e sull’ambiente. Per una serie di concause, il trend sarebbe oggi in brusca frenata. “Colpa” della pandemia da Covid-19, del rincaro delle risorse energetiche, ma anche delle mutate sensibilità dei consumatori. La studio di Credit Suisse parrebbe confermare: nei mercati sviluppati, i giovani dicono di voler comprare meno fast fashion (-13%) e meno luxury fashion (-2,2%), per orientarsi più volentieri verso servizi di noleggio (5,9%) e abbigliamento di seconda mano (31,0%). Situazione diversa per i mercati emergenti, in cui la domanda di fast fashion è tutt’altro che in declino: i redditi mediamente bassi certo non favoriscono l’acquisto di capi più sostenibili e ancora di base più cari.
Tiriamo le somme
Fra tendenze delineate e apparenti paradossi, una cosa è chiara: la comprensione e l’indirizzamento delle inclinazioni d’acquisto dei giovani consumatori verso prodotti più sostenibili è uno dei fattori di accelerazione più potenti nella trasformazione dei modelli di produzione del fashion, secondo nemmeno alla spinta delle normative di prossima pubblicazione sulla materia.
“Quello che possiamo osservare guardando all’Italia è che le aziende stanno rafforzando gli investimenti”, rileva Francesca Rulli. “È in atto un processo virtuoso per cui sempre più imprese implementano azioni di riduzione di impatto ambientale e di valorizzazione delle risorse umane, contribuendo con le loro performance alla sostenibilità di una filiera che i brand mostrano oggi di saper riconosce e premiare”.