Con la sua crescita prepotente, l’e-commerce ha rivoluzionato le nostre abitudini di acquisto, ma dietro la comodità di un clic online si nasconde un impatto ambientale importante, specie quando si tratta di restituire quello che abbiamo comprato. Il fenomeno del reso compulsivo, in particolare, sta costringendo aziende e consumatori a rivedere le proprie scelte.
L’impatto ambientale dei resi
Secondo il Global Web Index, le persone di età compresa tra i 25 e i 44 anni che hanno spedito indietro gli articoli acquistati nell’arco di un anno sono circa il 70%.
A causa dei resi, solo negli Stati Uniti, il settore dell’e-commerce genera annualmente circa 5 miliardi di chili di rifiuti e 15 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Globalmente, il ciclo di acquisto e reso compulsivo, incentivato dalla gratuità dell’opzione, ha un impatto ancora più devastante, soprattutto per ragioni riconducibili al packaging e ai trasporti.
Altri studi recenti ci dicono che i trasporti contribuiscono al 15% delle emissioni di gas serra del commercio elettronico, mentre il packaging rappresenta addirittura il 75% delle emissioni. Il tasso medio di reso si attesta al 14%, ma per i grandi player dell’e-commerce può raggiungere addirittura il 50%, con un impatto ambientale connesso pari al 9% delle emissioni di gas serra per ogni ordine di acquisto.
A livello di settore, è l’industria dell’abbigliamento a performare peggio: un’indagine realizzata da McKinsey poco prima della pandemia ha evidenziato un tasso di restituzione del 25 percento per l’abbigliamento sui canali e-commerce rispetto al 20 percento complessivo.
I serial returner
Il reso gratuito ha dato vita a una nuova categoria di consumatori: i serial returner, che comprano volontariamente più di quello che intendono tenere. Secondo due indagini analoghe di Barclayscard e Narvar, la percentuale si attesta rispettivamente attorno al 30% e al 40% degli acquirenti online. Alcuni clienti scelgono diverse versioni di uno stesso prodotto – colori e taglie, per lo più – per scegliere comodamente a casa e restituire poi quello che non convince.
Rientrano nella categoria, ma con caratteristiche tutte proprie, i wardrober – che acquistano un capo con l’intenzione di indossarlo per una serata e restituirlo l’indomani – e i social media wardrober: influencer o aspiranti tali che comprano vestiti e accessori da abbinare e sfoggiare sui social con l’hashtag #OOTD (outfit of the day).
Amazon e gli altri
Amazon, il colosso dell’e-commerce fondato da Jeff Bezos, ha introdotto politiche di reso gratuito che hanno contribuito a normalizzare tra i consumatori il comportamento di reso compulsivo. Incluso il tipo che non dipende da qualche difetto del prodotto o magari da un errore di taglia, ma dal fatto che, semplicemente, si è cambiata idea.
Secondo la National Retail Federation americana, nel 2022 i clienti hanno restituito circa il 17% della merce acquistata su Amazon, per un totale di 816 miliardi di dollari. Come abbiamo visto, però, la comodità del reso gratuito ha costi ambientali enormi.
Per farsene un’idea più precisa, basta seguire step by step il viaggio che fa, ad esempio, una maglietta dal momento dell’ordine.
Il processo inizia con l’imballaggio e la spedizione del capo dal magazzino al centro di smistamento, attraverso camion o aerei che producono gas inquinanti. Una volta ricevuto il pacco, se l’articolo non soddisfa le aspettative del consumatore può essere restituito anche senza motivi oggettivi.
La maglietta torna dunque in magazzino, il pacco viene disimballato e ispezionato. Anche se il capo è integro e inutilizzato, non può essere rimesso in vendita come nuovo, per cui le opzioni si riducono fondamentalmente a due: il rivenditore lo restituisce al fornitore dietro una commissione, oppure lo smaltisce, opzione molto comune perché è lo stesso sistema informatico a suggerirla come più economica. Sempre McKinsey ci dice che il 10% degli articoli moda – abiti e scarpe femminili, in particolare – finiscono in discarica.
Amazon informa di aver introdotto politiche di gestione dei resi molto più sostenibili: quando un prodotto non può essere rivenduto, la priorità è donarlo, altrimenti se ne valuta il riciclo. L’inceneritore? Solo in casi limite.
Sui resi gratuiti, stanno facendo retromarcia anche altri nomi importanti come Zara, H&M, J.Crew, Anthropologie, Abercrombie & Fitch… Le motivazioni non hanno a che fare solo con l’etica: secondo il Wall Street Journal, le aziende coinvolte perdono almeno il 50% del margine sui resi in spese per trasporti, stoccaggio, controlli, eventuali lavaggi e packaging.
Un recente report del British Fashion Council ha calcolato in 7 miliardi di sterline il costo dei resi nel 2022 per l’e-commerce del settore moda. Una perdita notevole di profitto, considerato che circa la metà degli articoli restituiti vengono rimessi in vendita scontati del 40%. E un’eccellente ragione per incoraggiare i brand a rivedere le proprie policy, cominciando e ad addebitare ai clienti parte dei costi di gestione dei resi dovuti ad acquisti online sbagliati. Nel Regno Unito questo ticket di restituzione è pari a 1,95 sterline, mentre in Australia si aggira intorno agli 8 dollari.
Soluzioni e best practice
Secondo Statista, nel 2026 le vendite nel settore dell’e-commerce cresceranno globalmente fino a 8,148 miliardi di dollari in tutto il mondo (nel 2014 si attestavano intorno a poco più di 1 miliardo). È evidente da questi numeri che nemmeno un gigante come Amazon è in grado da solo di fare la differenza. Serve un intervento a più livelli che coinvolga consumatori, venditori, autorità e società civile.
I consumatori hanno bisogno di essere educati sui danni dei resi compulsivi gratuiti, vanno incoraggiati a fare acquisti più consapevoli e a tradurre le proprie buone intenzioni in comportamenti coerenti.
I venditori, per parte loro, dovrebbero limitare o eliminare i resi gratuiti, dando informazioni precise sui prodotti e adottando accorgimenti in grado di prevenire e limitare i casi di restituzione: per l’abbigliamento, ad esempio, foto e video di alta qualità capaci di “catturare” i dettagli, recensioni dei clienti e indicazioni sulla vestibilità dei modelli sembrano produrre risultati incoraggianti.
E poi c’è la nuova frontiera dei camerini virtuali, un mercato per cui si profetizza una crescita fino a quasi 15 miliardi di dollari entro il 2029: avatar 3D in grado di rappresentare digitalmente il nostro corpo ci permetteranno di indossare vestiti e accessori prima di passare alla cassa.
Last but not least, l’intelligenza artificiale generativa. Sistemi come Fashion Assistant di Zalando, per esempio, aprono all’interazione con il negozio virtuale: i clienti possono conversare con l’assistente alle vendite proprio come farebbero in un negozio fisico, utilizzando le proprie parole per fare domande mirate e ricevere suggerimenti utili a finalizzare sì l’acquisto, ma consapevole!
Logica similare per il Virtual Stylist di Levi’s, un chatbot sviluppato per migliorare l’esperienza di shopping online e gestire meglio il magazzino modulando le disponibilità in base alla domanda. Disponibile sia sul sito del brand che su Facebook, il Virtual Stylist “intervista” i clienti per capire le loro preferenze sui jeans e suggerire i modelli migliori, mostrando anche immagini di acquirenti che indossano i jeans con caratteristiche simili.
A ognuno la sua parte
“Il nostro impegno a supporto della filiera produttiva della moda – spiega Francesca Rulli, CEO di Process Factory e Ympact e ideatrice del sistema 4sustainability – è fortemente incentrato sulla riduzione d’impatto dei processi che stanno dietro a ogni capo: tagliare i consumi di acqua e di energia e le emissioni di CO2 in atmosfera, eliminare la chimica tossica e nociva, incrementare la percentuale di materiale riciclato, riutilizzare gli scarti di produzione…
La prospettiva lato consumatore mi sembra meno a fuoco. Dinamiche come quella dei resi nell’e-commerce, per esempio, danno la misura dell’incoerenza con cui facciamo tante scelte di acquisto e cioè senza considerane l’impatto o non avendone proprio coscienza.
I brand possono e devono educare il consumatore a crescere, incoraggiando comportamenti più sostenibili e tornando indietro su politiche che hanno ampiamente dimostrato i propri limiti come quella del reso gratuito.
Anche il consumatore è chiamato però a fare la sua parte. Per crescere in consapevolezza suggerisco la visione della docu-serie Junk di Matteo Ward, l’accento sulle montagne di abiti in Ghana, in Cile, in Indonesia… Ad alimentarle, per lo più, sono i prodotti dell’ultra fast fashion, più economici da gettar via che da ricondizionare”.