Cotone, lana, poliestere… Non c’è materiale che, durante il suo ciclo produttivo, non generi un qualche impatto ambientale e sociale. E di questi impatti dobbiamo essere coscienti, se vogliamo fare la nostra parte per una moda più sostenibile. Con una premessa a monte: dare una patente di sostenibilità alle materie prime per definire con certezza se una sia meglio dell’altra non ha letteralmente senso.

Poiché  ogni fibra ha le sue peculiarità e si presta ad alcuni usi e non ad altri, stilare una classifica di sostenibilità sarebbe impossibile, oltre che superficiale. Cosa possiamo fare, allora? In che termini possiamo definire i contenuti di sostenibilità di un materiale? Semplicemente, possiamo elencarne i vantaggi, le criticità e le eventuali alternative meno impattanti, lasciando in secondo piano altri aspetti come costi e caratteristiche tecniche che meritano come ovvio una trattazione a parte.

Difficile comparare

Alle materie prime sono imputabili i due terzi dell’impatto del prodotto in termini di acqua, energia, emissioni, rifiuti e consumo del suolo. Basta questo dato della Global Fashion Agenda, il più importante forum internazionale sulla sostenibilità nella moda, per comprendere quanto sia alta la posta in gioco. Ora, la scelta istintiva, nell’intento di ridurre l’impronta ambientale dei nostri acquisti, sarebbe preferire i capi realizzati con fibre naturali. Peccato che la questione sia molto più intricata…

Prendiamo per esempio il cotone, la cui coltivazione impiega circa un quarto degli insetticidi ed erbicidi usati a livello globale. Se venisse completamente sostituito dal cotone biologico, il fabbisogno di energia primaria crollerebbe del 62%. Rimpiazzare il poliestere vergine con il poliestere riciclato, invece, permetterebbe di tagliare fino al 90% l’uso di sostanze tossiche, del 60% il consumo di energia e fino al 40% le emissioni.

Questi numeri ci dicono quanto siano articolate le considerazioni da fare e quanto sia opportuno – alla luce anche di un quadro ulteriormente complicato dalla molteplicità dei sistemi di misurazione in uso – che l’industria della moda colga l’invito della Global Fashion Agenda “a concentrarsi sullo sviluppo di nuove materie prime più sostenibili”.

La produzione di fibre

Dalla lettura dell’ultimo report di Textile Exchange relativo al 2019 – che non risente quindi degli effetti del Covid – emerge che la produzione globale di fibre ammonta a 111 milioni di tonnellate, una quantità raddoppiata negli ultimi 20 anni e cresciuta del 2,7% rispetto al 2018. Continuando a questo ritmo, di qui al 2030 raggiungerebbe i 146 milioni di tonnellate.

Le fibre sintetiche la fanno da padrone. Il poliestere rappresenta da solo il 52% della produzione globale, ma considerando anche il nylon e le altre fibre sintetiche si arriva al 62,9%. Il cotone è secondo in classifica, con una produzione nel 2019 di 25,7 milioni di tonnellate, di cui circa il 25% può essere definito sostenibile. Quanto alle fibre artificiali cellulosiche – vale a dire viscosa, acetato, lyocell, modal e cupro – siamo in pieno exploit: fino al 1990 ne venivano prodotte circa 3 milioni di tonnellate all’anno, passate a 7 milioni di tonnellate nel 2019.

Focus su lana e cotone

Per capire meglio pro e contro delle diverse materie prime in ottica sostenibile, stringiamo l’obiettivo su due fibre tessili fra le più utilizzate e familiari anche alla platea dei consumatori: lana a e cotone.

LANA

Il principale vantaggio della lana in termini ambientali è che si tratta di una risorsa naturale, rinnovabile e completamente biodegradabile.
Lavorare la lana presenta però dei limiti da tenere in considerazione. In fase di lavaggio, anzitutto, perché i passaggi indispensabili per purificare la lana ed eliminare gli scarti richiedono un ingente apporto di acqua e sostanze chimiche.

Gli allevamenti intensivi di bestiame contribuiscono ad aggravare la degradazione del suolo, accelerando il processo di desertificazione delle aree geografiche già interessate da ondate frequenti di siccità.
Pur essendo una fibra naturale, inoltre, anche la lana ha un’incidenza sui cambiamenti climatici. Il metano e il protossido di azoto derivanti dalle deiezioni animali, infatti, sono gas serra.
Dalla dimensione prettamente ambientale a quella etica legata al benessere degli animali, il passo è breve. Come facciamo a capire se il nostro maglione è stato realizzato senza maltrattare gli animali? E quali sono le “alternative” sostenibili? Possiamo individuare tre grandi famiglie.

Lana biologica

Proviene da allevamenti in cui gli animali sono lasciati liberi di muoversi, nutriti con mangimi biologici e curati con metodi naturali, senza il ricorso indiscriminato agli antibiotici. Il riferimento principe è l’insieme delle cinque libertà fondamentali dell’animale codificate nel 1979 dal Farm Animal Welfare Council (FAWC), lo schema certificativo più diffuso il Global Organic Textile Standard (GOTS).

Lana responsabile

La certificazione più nota si chiama RWS (Responsible Wool Standard), è stata sviluppata da Textile Exchange e fa leva sul concetto di catena di custodia: se notiamo il marchio RWS sull’etichetta del nostro maglione, questo significa in linea di massima che gli step della produzione sono stati certificati. Simili alla certificazione RWS, perché accomunati dalla stessa attenzione al welfare animale, vi sono altri schemi verificati attraverso audit di terza parte, come il neozelandese ZQ, Nativa, Schneider, SustainaWool e altri ancora.

Lana riciclata

Più che di lana riciclata, dovremmo parlare tecnicamente di lana rigenerata, cioè realizzata con materia prima ottenuta dal riuso di rifiuti con destinazione identica rispetto a quella della sua “prima vita”. Due i grandi vantaggi in termini di sostenibilità: si riduce il fabbisogno di materie prime vergini e si evita la fase di tintura, con tutto il prevedibile risparmio di acqua e prodotti chimici che si porta dietro. Come schemi certificativi di riferimento, citiamo tra gli altri ancora GOTS e Recycled Claim Standard (RCS).

COTONE

Quando dobbiamo scegliere una tutina per neonato, un set di lenzuola o una t-shirt, il consiglio della nonna è sempre lo stesso: controllare sull’etichetta che siano di puro cotone. Sulle proprietà di questa fibra naturale – fresca, traspirante, resistente e ipoallergenica – siamo tutti d’accordo. Che dire, però, della sostenibilità?
Trattandosi di una fibra naturale, il cotone è biodegradabile – si decompone in media in un paio di mesi – e questo è per l’appunto uno dei suoi maggiori vantaggi ambientali.

Promettente è anche la possibilità di riutilizzare gli scarti di produzione, ad esempio per realizzare materiali fonoassorbenti o isolanti impiegati in edilizia.
Dei contro abbiamo in parte già detto. Le pratiche agricole convenzionali fanno largo uso di prodotti chimici per accelerare la crescita delle piante di cotone, prodotti nocivi per la salute dell’uomo che concorrono anche all’impoverimento del suolo. E poi c’è lo spreco immane di acqua, causato, prima ancora che da esigenze di coltivazione, da sistemi obsoleti di gestione idrica.

Un capitolo terribile è poi quello dello sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro forzato: milioni di persone impiegate nei campi di cotone senza alcun tipo di tutela.
Le alternative sostenibili, almeno sulla carta, esistono. Proviamo a riassumere le principali.

Cotone biologico

Secondo Textile Exchange, il cotone organico o biologico – certificato Organic Cotton Standard (OCS) o GOTS, per esempio – consuma il 62% di energia in meno e il 71% di acqua in meno rispetto a quello tradizionale. La differenza sta soprattutto nella fase di coltivazione, perché – fra le altre cose – gli OGM sono vietati, i semi non vengono trattati con sostanze chimiche e si tengono alla larga i parassiti attraverso metodi naturali, invece che attraverso l’uso di diserbanti e pesticidi.

Cotone riciclato

La seconda grande famiglia è rappresentata dal cotone riciclato, la cui produzione ha un impatto significativamente inferiore perché non richiede l’impiego di fibra vergine ma utilizza solo materiali pre-consumer (cioè gli scarti di produzione) o post-consumer (cioè gli abiti dismessi).
Se vogliamo accertarci che un capo sia realizzato con materie prime riciclate, possiamo cercare il simbolo di certificazioni come Global Recycle Standard (GRS) e RCS.

Iniziative standard

Oltre alle certificazioni, esistono anche alcune iniziative svincolate dal prodotto a cui ogni brand è libero di aderire per supportare un modello più sostenibile. La più partecipata in assoluto, incentrata sulla formazione degli agricoltori, è Better Cotton Initiative (BCI). Gli agricoltori imparano a usare in modo più efficiente l’acqua, a prediligere tecniche rispettose dell’equilibrio del suolo e degli habitat naturali, a minimizzare l’uso di sostanze chimiche tossiche e a garantire condizioni di lavoro dignitose.

Tutto limpido?

Il cotone è secondo solo al poliestere nella classifica delle fibre più comuni, con quasi 26 milioni di tonnellate prodotte nel 2019. Circa l’80% proviene da appena sei Paesi: India, Cina, USA, Pakistan, Brasile e Uzbekistan. L’India, in particolare, è il più grande produttore al mondo di cotone biologico, con una crescita del 48% nell’ultimo anno, a dispetto della pandemia. Crescita, tuttavia, che secondo più fonti sarebbe falsa, perché falsa è l’etichetta “biologico” associata al cotone.

Sul banco degli imputati c’è un sistema di certificazione opaco, se non proprio fraudolento. Ai consumatori viene garantito il materiale “biologico” dei marchi, che si basano su timbri ufficiali di approvazione di organizzazioni esterne. Questi timbri si basano a loro volta su rapporti di agenzie di ispezione locali poco trasparenti, che fondano le loro conclusioni su un’unica ispezione annuale pianificata o su alcune visite casuali.

Nel 2009, l’agenzia di esportazione agricola indiana ha scoperto una frode su larga scala, con interi villaggi che certificavano come biologico il cotone geneticamente modificato. Il governo ha promesso che avrebbe rilasciato il software di tracciamento digitale l’anno successivo. Non l’ha mai fatto.

La credibilità delle agenzie di ispezione, nel frattempo, è stata distrutta. Al punto che l’Unione Europea ha votato per non accettare più l’export biologico indiano certificato da alcune agenzie internazionali.

Strutturare l’impegno

Secondo Francesca Rulli, CEO di Process Factory/4sustainability®, gli schemi certificativi hanno una funzione importante, purché le verifiche a monte siano eseguite con logiche di correttezza e trasparenza e purché rientrino, da parte delle aziende, in un impegno trasversale per la sostenibilità che non può evidentemente limitarsi all’ottenimento di un bollino. “Il marchio di garanzia, se il processo di rilascio a monte è credibile, è ciò che ci permette di riconoscere i contenuti di sostenibilità di un dato prodotto. E ha tanto più valore quanto più è integrato in un percorso strutturato per la creazione di un modello di produzione sostenibile. Il framework 4sustainability è nato per supportare esattamente questo impegno, misurando le performance delle imprese della filiera su tutte le dimensioni della sostenibilità rilevanti per il settore”.
Insomma, serve un approccio sistemico. Il singolo attributo di un prodotto è buona cosa, ma non abbastanza da incidere sulla riduzione d’impatto della produzione. È ciò che Rulli prova a “tradurre” nel suo libro Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenibile (Dario Flaccovio Editore 2022) pensando a un pubblico più ampio di quello dei soli addetti ai lavori.