di Francesca Rulli

Sfruttamento minorile, salari da fame, diritti umani negati… I problemi sociali legati alla produzione globale della moda sono ben noti. Anche se viene fatto ancora troppo poco per risolverli alla radice.
Ce ne sono anche altri, naturalmente, legati alla dimensione ambientale e oggi attualissimi e sentiti. Vediamone insieme alcuni e capiamo perché sono l’indicatore dell’urgenza di un cambiamento radicale anche e soprattutto a livello culturale.

Il deserto di Atacama e le sue “dune”

Novembre 2021. Il sito di Al-jazeera pubblica Chile’s desert dumping ground for fast fashion leftovers, un articolo di denuncia che ha come involontario protagonista il Deserto di Atacama, in Cile, con le sue “dune” di vestiti. Sì, di vestiti!
Ogni anno, 59mila tonnellate di capi arrivano al porto di Iquique, a nord del Paese: alcune vengono comprate dai commercianti della capitale Santiago, 1800 km a sud; moltissime vengono contrabbandate in altri Paesi dell’America Latina e il resto – circa 39mila tonnellate – finiscono nelle discariche del deserto, in zona franca. Perché? Perché nessuno sarebbe disposto a pagare quanto serve per portarle via.

I fiumi inquinati dell’Africa

Attraversiamo l’Atlantico e approdiamo in Africa. Il problema, qui, è soprattutto l’inquinamento dei corsi d’acqua, come denuncia una nutrita letteratura tra cui il report dell’ente benefico Water Witness International dal titolo How fair is fashion’s water footprint.
In Lesotho, ad esempio, i fiumi vengono massicciamente inquinati dai coloranti impiegati per tingere il denim. In Tanzania, i campioni d’acqua raccolti nei pressi di una fabbrica tessile hanno evidenziato un pH pari a 12, quello di una comune candeggina.
Ora, se pensiamo che a queste risorse idriche attingono le comunità locali per esigenze legate all’alimentazione, all’irrigazione dei campi e all’igiene, è facile immaginare il tipo di danni causati all’uomo e all’ambiente.

La deforestazione dell’Amazzonia

Capitolo deforestazione. Per capire cosa c’entri questo sciagurato fenomeno con l’industria della moda, torniamo in America del Sud e più nello specifico all’Amazzonia.
Secondo il report di Stand.earth Nowhere to hide: how the fashion industry is linked to Amazon rainforest destruction, la correlazione è stretta. Alcune grandi aziende del fashion acquistano la pelle per realizzare scarpe, borse e altri accessori da produttori e concerie che stanno devastando il polmone del mondo, come è universalmente nota la foresta pluviale amazzonica. Questo per far posto agli allevamenti intensivi e sostenere una domanda che, secondo l’International Council of Tanners (ICT), continua a crescere.

Oltre il visibile

Un articolo di EcoWatch dal titolo Fast Fashion 101: Everything you need to know prova a fare il punto sugli effetti eclatanti, anche se non visibili ad occhio nudo, dell’industria della moda.
Secondo la Ellen MacArthur Foundation, il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2, un impatto dovuto fra l’altro alle lunghe tratte effettuate per trasportare i vestiti dalla sede di produzione a quella di vendita e poi a quella di smaltimento.
Un problema attribuito per lo più alla fast fashion è legato alla tintura dei capi più economici, per i quali – eccezioni a parte – si farebbe un uso diffuso di mix tossici di sostanze chimiche che si disperdono ancora una volta nell’ambiente.

Rifiuti tessili: diamo i numeri!

Secondo un articolo di un paio di anni fa, i rifiuti tessili sono aumentati dell’811% dal 1960 al 2015, passando da 1,7 milioni di tonnellate a 16 milioni.
In un rapporto del 2017 della Ellen MacArthur Foundation, A New Textiles Economy: Redesigning fashion’s future, si legge invece che il numero medio di volte in cui un capo di abbigliamento viene indossato prima di essere scartato è sceso del 36% negli ultimi 15 anni. L’ovvia conseguenza è un aumento esponenziale del livello di rifiuti.

Da un’altra indagine di McKinsey, Style that’s sustainable: a new fast-fashion formula, si evince che la produzione di abbigliamento è raddoppiata dal 2000 al 2014 e il numero di capi acquistati pro capite è aumentato di circa il 60%. Con la compressione dei cicli di produzione e la realizzazione di design sempre nuovi, i consumatori hanno possibilità infinite di rinnovare il guardaroba. Da alcune stime, sembra che soprattutto i capi economici siano alla stregua di usa e getta da buttare via dopo 7-8 utilizzi al massimo.

Il comportamento dei consumatori

Why people conveniently ‘forget’ that child labor made their jeans è il titolo di un interessante servizio di MarketWatch sulla memoria selettiva di quei consumatori che, essendo interessati a un certo capo, ne apprendano la genesi non propriamente sostenibile. Secondo uno studio dell’Ohio State University, in presenza di informazioni etiche emotivamente difficili, l’essere umano attiverebbe due diversi meccanismi: la tendenza a dimenticare completamente la questione oppure quella a memorizzare erroneamente gli aspetti non etici come buoni e giusti.
A questo si aggiunge la pressione dei social media, che ci dicono in tempo reale cosa indossano le celebrity e cosa, di conseguenza, andrà di moda. Internet ci espone cioè a un bombardamento di stimoli che favorisce e accelera il ciclo della moda veloce, facendoci sentire costantemente un passo indietro, costantemente nell’obbligo di rincorrere l’ultima tendenza.
Un sondaggio del 2017 evidenziava come il 41% dei giovani tra i 18 e i 25 anni senta la necessità di indossare abiti diversi ogni volta che esce di casa. Perché? Perché ogni outfit viene scrupolosamente documentato sui social e indossare gli stessi capi più di una volta è dunque fuori discussione. Discutibile, ma è quello di cui un giovane su sei sembra essere convinto.

Le risposte per invertire davvero la rotta

Se questi sono i comportamenti, se è vero che certe domande ce le facciamo ma poi non siamo coerenti nelle scelte di acquisto, significa che le risposte sono inefficaci.
Per parte mia, ho provato a organizzare alcune utili riflessioni in un libro che ha l’ambizione di parlare a un pubblico il più ampio possibile: s’intitola Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenibile (Flaccovio Editore). Se avrò guadagnato alla causa anche una persona soltanto, lo sforzo non sarà stato vano. Perché i dati e le evidenze che vi sono raccolti e che ritrovate in parte anche qui fanno letteralmente impressione e sono inequivocabili e “urlano” quanto sia urgente e sacrosanto invertire la rotta! Peccato che, alla resa dei conti, continuiamo tutti a fare e ad acquistare come abbiamo sempre fatto.

I fronti su cui investire sono due. Bisogna lavorare affinché sempre più persone, prima di acquistare un capo, si pongano le domande giuste. Il secondo fronte è quello industriale: le aziende devono collaborare allo sviluppo di soluzioni idonee a informare correttamente il consumatore, dotandolo di strumenti semplici per capire la differenza che passa tra un capo con attributi reali di sostenibilità, realizzato da un brand e da una filiera sostenibili, e un capo prodotto invece in barba all’etica e alla responsabilità sociale e ambientale.
Le iniziative che puntano a questi obiettivi non mancano e cito fra le altre il sistema 4sustainability. L’impegno più gravoso sta però a monte e consiste nel modificare gradualmente il pensiero comune, la cultura, le logiche di produzione e di acquisto… Ci vorrà del tempo, ma conosciamo la direzione.