Quali novità e contributi sono emersi dall’ultima edizione del Copenhagen Fashion Summit, andato in scena anche quest’anno in formato digitale? Con un programma distribuito su due giorni e oltre 60 speakers coinvolti, abbiamo registrato diversi spunti interessanti. Ve ne proponiamo una sintesi parziale, ma a nostro avviso significativa.
Il 7 e 8 ottobre, si sono “incontrati” sulla piattaforma CFS + i maggiori player della moda globale, per discutere di sostenibilità e vagliare insieme le soluzioni per supportare la crescita del settore riducendo al contempo il suo impatto sull’ambiente. Prosperity vs Growth, non a caso, è il tema dell’edizione 2021, che potremmo anche tradurre nella seguente domanda: in che modo l’industria della moda può prosperare oggi a favore di domani? Il che, alla luce del report delle Nazioni Unite diffuso la scorsa estate sull’emergenza climatica, vale come l’ennesimo monito ad agire.
La moda deve ripensare la crescita
Uno degli input più interessanti emersi dal discorso di apertura di Federica Marchionni (CEO di Global Fashion Agenda) e dai vari tavoli di confronto è l’esigenza di ridefinire il concetto stesso di business. Più persone che acquistano più beni è il modello sul quale ancora si misura in larga parte il successo del comparto, ma è un modello insostenibile, perché troppo alto è il suo impatto sulle persone e sull’ambiente. E il dato per cui il 30% dei capi prodotti rimane invenduto basta da solo a evidenziare il fallimento del sistema e l’urgenza di passare a modelli circolari di business orientati al recupero, al riuso, al riciclo e al sustainable design.
Equity vs Equality
Il Copenhagen Fashion Summit di quest’anno – lo abbiamo visto dal titolo – ha giocato molto sulla (presunta) contrapposizione di concetti. Quella fra Equità ed Uguaglianza ha consentito di indagare fra l’altro la dimensione sociale della sostenibilità.
Felicia Mayo, Chief Talent, Diversity & Culture Officer di Nike ha svolto il tema incentrando il suo intervento sull’opportunità di creare all’interno di ogni azienda una cultura inclusiva in cui ognuno si senta coinvolto e in cui la comunicazione e l’ascolto siano delle costanti.
Ma come si realizza questo obiettivo? Valorizzando la diversità, secondo Ayana Elisabeth Johnson, Co-founder di Urban Ocean Lab. “Persone provenienti da situazioni e culture diverse – ha affermato – propongono soluzioni diverse e questo genera progresso. È attraverso il confronto che si realizza la trasformazione dei modelli di business verso alternative più sostenibili”.
Acquistare consapevolmente
Trasparenza è un’altra parola mantra del CFS. Pensando al consumatore, trasparenza significa aiutarlo a fare scelte più informate e dunque anche a distinguere i capi a contenuto effettivo di sostenibilità dai vuoti esercizi di greenwashing.
L’idea proposta fra gli altri da Arjeta Muja, esperta di moda e Marketing Creative Consultant, è un’etichetta studiata per raccontare al consumatore la storia del capo su cui è applicata, con particolare riguardo agli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale. Niente di nuovo, in verità, ma repetita iuvant, specie se c’è la volontà di passare dalla proposta al progetto.
Educare i consumatori
La conversazione fra Tommy Hilfiger e l’attrice e attivista Yara Shahidi ha toccato il tema del ruolo che la moda può giocare nel cambiamento sociale. Ed è un ruolo-chiave, vista la diffusa esperienza di come la moda riesca a definire standard comportamentali che il pubblico poi assimila. Se questi standard fossero orientati alla responsabilità e al rispetto dell’ambiente e della persona, il beneficio sarebbe lampante. I consumatori, insomma, vanno educati, cominciando a ridurre quel poco incoraggiante 50% di pubblico che non sa dire nemmeno in cosa consista la sostenibilità nel fashion.
Ratings vs Rethoric
Cosa è più utile al cambiamento? Un set di misurazione univoco della sostenibilità o una narrativa efficace da parte dei brand? È abbastanza intuitivo che la componente emozionale non possa prescindere da una base scientifica: le aziende che si dichiarano sostenibili devono supportare il loro racconto con performance misurabili e dati veritieri, altrimenti scadono nel greenwashing. È vero anche il contrario, però, perché solo i dati opportunamente decodificati impattano sul consumatore al punto di modificarne i comportamenti.
“I brand devono comunicare il loro impatto in modo trasparente, coerente e comparabile”, ha detto Sandra Capponi, Co-founder di Good on You. “Il 70%, però, non lo fa o lo fa senza dati scientifici a supporto”.
Più tutele per i lavoratori del settore
La necessità di maggiori tutele per i lavoratori dell’abbigliamento è emersa con forza dalla tavola rotonda sui temi dell’etica e della distribuzione del valore fra i vari anelli della filiera moda inserita nel programma 2021 del Copenhagen Fashion Summit La questione era pressante già prima della pandemia, ma l’annullamento di ordini per miliardi di dollari deciso da molti grandi brand come reazione scomposta alla crisi ha messo in ginocchio la filiera riproponendola con un nuovo carattere di urgenza.
“Quello di cui abbiamo bisogno e quello che per fortuna stiamo iniziando a vedere è una legislazione più intelligente e interventista”, ha commentato Ayesha Barenblat, CEO di Remake.
Modelli on-demand per ridurre gli sprechi
La tecnologia è un alleato irrinunciabile per ridurre gli sprechi sia nella fase di progettazione dei capi di moda sia in quella di produzione. “Passando a modelli on-demand – ha sottolineato Philippe Desinet, General Director EMEA di Chargeurs*PCC – marchi e rivenditori possono soddisfare la crescente domanda di personalizzazione dei consumatori, riducendo al contempo gli sprechi di magazzino”.