L’agricoltura rigenerativa va decisamente di moda. Giganti del settore come Kering e VF Corporation, brand come Armani e Stella McCartney, ma anche marchi indipendenti orientati alla sostenibilità hanno sposato pubblicamente la causa, consapevoli del vincolo esistente fra l’industria della moda e i sistemi di coltivazione del cotone o quelli di gestione delle foreste per la produzione di viscosa.
L’espressione agricoltura rigenerativa, in termini generali, indica un approccio olistico all’agricoltura che cerca di preservare la natura anziché sfruttarla a senso unico, individuando tempi e modi per restituire ciò che viene preso. Rispondono a questa logica tutte le pratiche che, coniugando il sapere della tradizione con le moderne conoscenze scientifiche, contribuiscono a ripristinare la vitalità del suolo, a garantire la purezza dell’acqua nelle falde acquifere, a contrastare l’erosione dei terreni, a favorire la biodiversità e la decarbonizzazione.
Biologico e rigenerativo sono sinonimi?
Il pascolo pianificato, l’uso di alternative naturali ai pesticidi chimici, la rotazione delle colture o le colture di copertura, il dissodamento ridotto… sono alcuni esempi possibili di agricoltura rigenerativa. Purtroppo, non è detto che ciò che funziona in una fattoria debba funzionare necessariamente in un’altra e restano oggetto di dibattito anche questioni di fondo come se una fattoria, per essere considerata rigenerativa, debba essere anche biologica.
Un’agricoltura che fa uso di pesticidi o diserbanti e si definisce rigenerativa è un paradosso, ma biologico non vuol dire rigenerativo: preferire compost naturali a quelli chimici è una condizione necessaria ma non sufficiente a riparare i danni già fatti.
I marchi di moda si stanno dando da fare per mitigare il proprio impatto ambientale lungo l’intera catena di fornitura e la filiera non è da meno, considerando che il peso maggiore della conversione dei processi a logiche di sostenibilità grava proprio sulle aziende produttrici. In questo percorso virtuoso, rientrano gli investimenti per diventare carbon neutral o addirittura carbon negative, catturando cioè più carbonio di quanto se ne produca.
L’agricoltura rigenerativa è uno dei mezzi possibili per tendere all’obiettivo. è una sfida affascinante e le esperienze degne di nota non mancano: c’è chi ha cominciato a lavorare con fattorie che coltivano cotone biologico e rigenerativo e chi è direttamente impegnato nella creazione di standard credibili di certificazione.
La domanda è se questo tipo di approccio possa adattarsi alla produzione massiccia di fibre di cui ha bisogno l’industria tessile e della moda…
Over production, il vero nemico
La strada maestra, secondo Francesca Rulli, è sfruttare meno e meglio le risorse di cui disponiamo e questo significa anche rallentare o comunque ripensare gli attuali modelli di produzione e consumo.
“Se continuiamo a immettere sul mercato i volumi della fast fashion e della ultrafast fashion – spiega – le materie prime da pratiche a ridotto impatto ambientale non basteranno mai, si tratti di agricoltura, di allevamento o di soluzioni innovative di recupero e/o riciclo.
La scienza e la tecnologia ci mettono a disposizione metodi e strumenti per ridurre gli impatti misurando anche i progressi. Non abbiamo alibi, in tal senso. La vera sfida, oggi, è quindi incentivare le produzioni virtuose contando anche sul vento a favore del mercato e del legislatore. L’obiettivo ultimo resta la drastica riduzione dei volumi di cui sopra, montagne di prodotti a basso costo e infima qualità che buttiamo via dopo pochi indossi e che montagne di spazzatura diventano davvero, in paesi-discarica come Ghana e Cile”.
Standard di certificazione
E le certificazioni? Esistono standard condivisi che definiscano in modo chiaro come l’agricoltura rigenerativa possa essere definita, misurata e comunicata?
Un’esperienza di agricoltura rigenerativa certificata è quella che fa riferimento alle pratiche rigenerative biologiche messe a punto negli Stati Uniti da Rodale Institute. Il marchio ROC (Regenerative Organic Certified™, ovvero Biologico Rigenerativo Certificato) è stato introdotto nel 2018 e fa riferimento a uno standard olistico di produzione incentrato sui principi dell’agricoltura biologica.
Lo standard è supervisionato dalla Regenerative Organic Alliance, un’organizzazione senza scopo di lucro composta da esperti in agricoltura, allevamento, salute del suolo, benessere degli animali ed equità tra agricoltori e lavoratori.
Un’altra iniziativa interessante, nata per supportare la transizione delle aziende a tecniche di agricoltura rigenerativa, è regenagri®, il cui fine dichiarato è incrementare le sostanze organiche del suolo, migliorare la biodiversità, riequilibrare le funzioni naturali dell’ecosistema, migliorare i cicli di idrogeno, carbonio e nutrienti…
Per certificare un’azienda agricola secondo i criteri dello standard, regenagri® passa al vaglio tutte le sue strategie e pratiche di gestione, raccogliendo e monitorando i dati che servono a definire il suo punteggio regenerativo. Per ottenere la certificazione, il punteggio minimo è 65%, ma per mantenerla, tutte le aziende al di sotto del 90% sono tenute a dimostrare annualmente i propri miglioramenti.
Anche i tessuti possono essere certificati regenagri®: l’iter prevede la verifica della percentuale di fibre coltivate in modo regenerativo presente nel prodotto fin dalla sua prima lavorazione, percentuale che non può essere inferiore al 40%.